Amici miei: ricorrono i cinquant’anni di un capolavoro senza tempo.

amici miei

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Decisamente un giorno che poco si adatta all’uscita di un film, ma il ferragosto di cinquant’anni fa ci ha regalato uno dei film più brillanti della cinematografia, non solo italiana. Attualissimo ancora oggi, “Amici miei” è divenuto negli anni un autentico cult. Presentata a Taormina un mese prima, la pellicola tardò a guadagnarsi gli encomi della critica. Sfondò invece da subito nel gradimento popolare, complice anche un veto, ai quattordicenni, della Commissione di allora, che ne acuì l’interesse. In testa negli incassi, superò perfino “Lo Squalo” di Spielberg, di quella stessa stagione. A Pietro Germi, malato al punto di non poter firmarne la regia, si deve la sceneggiatura del capolavoro.

Fu lui stesso, l’indimenticato e malinconico “Ferroviere”, ad affidarlo al collega e amico Mario Monicelli. L’ispirazione, Germi, l’aveva raccolta dalla storia di cinque personaggi, realmente esistiti negli anni Trenta a Castiglioncello, in provincia di Livorno. Un medico fiorentino, un architetto, un nobile del posto, un giornalista e il suo collaboratore. Cinque giovanotti cui piaceva scherzare con la gente, per usare un eufemismo. Quelli che ancora c’erano, quando uscì il film, apprezzarono compiaciuti il ritratto dei cinque toscanacci. Il cast, d’altronde, era davvero di prim’ordine. Ugo Tognazzi, nei panni del conte Mascetti, Philippe Noiret che interpretava il reporter Perozzi, Gastone Moschin (Melandri, l’amatore), Adolfo Celi, l’ottimo professor Sassaroli, e Duilio Del Prete, per l’occasione gestore del Bar Necchi, coinvolsero alla grande Bertrand Blier, il Righi, al centro di un episodio “cattivo”, ed esilarante insieme, proprio al bar del Necchi. Del film rimane impressa la “supercazzola” raccontata al vigile, preso di mira perché voleva multare Moschin, reo di aver clacsonato.

Ancora più iconica è la scena, forse la più spassosa di tutte, degli schiaffi “al volo” ai viaggiatori, sul treno in partenza da Santa Maria Novella. Una trovata, si racconta, del “crudele” Tognazzi in prima persona. Un film insomma intriso di leggerezze e di vere e proprie zingarate, e di un’allegria che oggi si direbbe “on demand”. Già, perché ognuno dei protagonisti vive una vita senz’altro dignitosa, qualcuno anche professionale. Ma quando la routine di tutti i giorni li annoia, i cinque bischeri mirano ai poveri malcapitati, spesso lo fanno anche in modo geniale. O persino con dissacrazione. Come accade ai funerali del povero Perozzi.  Ridere anche quando non si potrebbe, o non di dovrebbe. Quel che rende il film per certi versi unico è l’amicizia che lega i personaggi. Un sentimento, peraltro, coniugato tutto al maschile che difficilmente si riscontra in altre pellicole. Un collante che fa complici i protagonisti e li unisce soprattutto nei momenti d’ombra. Una forza che trasmette finanche una dose di follia. È anche per quello che “Amici miei” onora il cinema italiano, esalta un “modus vivendi” non comune, rimanendo comunque sempre attuale. E si piazza, con pieno merito, tra i capolavori immortali dell’arte della celluloide.